Il complesso-montuoso collinare ibleo, che forma la cuspide sud-orientale della Sicilia, costituisce una spettacolare cornice dove la natura incontaminata e le millenarie tracce della presenza umana si integrano perfettamente. Si tratta di un territorio ricchissimo di testimonianze archeologiche che coprono un arco cronologico lunghissimo, compreso tra il Paleolitico superiore e l’età moderna. Proprio in questa regione si colloca il più antico tra i rifugi preistorici siciliani ad oggi conosciuti, il riparo sotto roccia della Fontana Nuova, presso Marina di Ragusa, databile tra 30.000 e 40.000 anni fa, sulla base dello studio tipologico dei manufatti venuti alla luce, realizzati ricorrendo a due varietà di selce, una locale e l’altra proveniente, incredibilmente, da una fonte lontana circa 100 km, ubicata nei pressi di Monte Iudica. Diversi millenni dopo, al tempo della fine dell’ultima glaciazione, tra 15.000 e 10.000 anni fa, gli insediamenti si moltiplicano.
Dalla grotta Giovanna, nel siracusano, provengono i maggiori esemplari siciliani di arte paleolitica mobiliare: ben 71 pietre incise con raffigurazioni astratte e 5 con immagini zoomorfe, tra cui quella di un bovide, a testimonianza di come grotte e ripari fossero non solo abitazioni, ma anche luoghi di rilevanza cultuale.
In Sicilia Sud-Orientale sembra svilupparsi anche la prima vera cultura agricola del Neolitico siciliano, quella di Stentinello, che prende il nome dal villaggio presso Siracusa, scoperto da Orsi nel 1890. Il villaggio capannicolo costiero, trincerato, circondato da uno o più fossati concentrici, profondi fino a 5 mm e rafforzati da un aggere di pietra è ora la forma di insediamento privilegiata. Dal Neolitico, inoltre, l’area iblea fu inserita in complessi reti di scambio commerciale, grazie agli abbondanti depositi di selce, materia prima di fondamentale importanza per gli strumenti del tempo, accanto all’ossidiana delle Eolie. Utilizzato a partire dalla Tarda età del Rame se non prima, è lo straordinario ipogeo di Calaforno, una vera e propria catacomba con 35 camere comunicanti scavate nella roccia e 3 ambienti maggiori. Strettamente legata al mondo Ibleo e alle sue cave, è la cultura castellucciana del Bronzo Antico, che prende il nome dal sito eponimo ubicato presso la cava della Signora (Noto, SR). I profondi canyon che attraversano gli altopiani, ricchi di acqua, vegetazione, fauna e dotati di un microclima fresco, rappresentavano la sede ideale per lo stanziamento di villaggi autosufficienti. Il segno più evidente di questi insediamenti è rappresentato dalle innumerevoli necropoli di tombe a grotticella artificiale, scavate nella roccia su basse balze verticali. Una certa differenziazione sociale è indicata dalle tombe che si distinguono per la presenza di prospetti monumentali esterni, con semipilastri o veri e propri pilastri intagliati. Simboli di status erano anche le note lastre tombali di chiusura, decorate in bassorilievo con motivi a spirale, talvolta in associazione ad elementi fallici.
Un periodo turbolento si abbatté sull’isola al passaggio tra le Media e la Tarda Età del Bronzo, nel XIII sec. Sopravvivono solo alcuni dei floridi villaggi costieri che nell’età precedente erano stati in grado di stabilire intensi contatti commerciali con le genti micenee, tra cui Thapsos, sulla penisola Magnisi. Nello stesso tempo si realizza un arretramento verso l’interno e una concentrazione demografica in siti d’altura, arroccati e facilmente difendibili.
Il più importante della regione è Pantalica sorto alla confluenza tra i fiumi Anapo e Calcinara, su uno sperone roccioso circondato da pareti scoscese, traforate da oltre 5000 tombe a grotticella.
Intorno alla metà del XI secolo, si verifica un chiaro mutamento etnico e culturale. Anche questa regione, come già da tempo le Eolie e la Sicilia settentrionale, entra nell’orbita di una cultura di origine peninsulare che si può mettere in relazione ai Siculi di cui ci parla Tucidide. Pantalica comincia a recepire elementi di influenza esterna, mentre altri centri entrano pienamente nell’ambito della nuova cultura sicula come Cassibile, insediamento ubicato in posizione arroccata, a dominare la Cava Grande.
Pantalica, tuttavia, continua a resistere e a mantenere una propria identità culturale a lungo e solo intorno alla metà del IX secolo, mentre sorgono nuovi centri, come Monte Finocchito, cade completamente sotto l’influenza sicula.
Ciò non ne determinò il declino, tanto che il suo dominio sul territorio circostante continuò almeno fino al VII secolo, quando dovette soccombere alla soverchiante potenza militare di Siracusa. Forse proprio a Pantalica aveva sede l’Iblone di cui narra Tucidide, il re dei siculi che, impietositosi per le traversie dei coloni giunti da Megara di Grecia, gli concesse le terre per fondare Megara che, in segno di gratitudine, assunse l’appellativo Iblea.
La storia degli Iblei è strettamente legata a quella di Siracusa, dal momento della sua fondazione, ad opera di coloni corinzi, nel 733 a.C. La potenziale minaccia rappresentata dai centri siculi più a oriente degli Iblei, Pantalica a Nord e Monte Finocchito a Sud, porta Siracusa a fondare tre sub-colonie tra VII e inizi VI secolo a.C.: Acre (663) Casmene (643) e Camarina (598), così da creare una sorta di barriera da mare a mare. Parallelamente a questi paesaggi urbani, nelle campagne iblee inizia a delinearsi un paeasaggio rurale, il quale sulla base dei pochi dati archeologici, si caratterizzava per la presenza di fattorie e piccoli villaggi con vocazioni agricole e specializzati nella produzione del vino e dell’olio.
Per quanto riguarda il periodo repubblicano e primo imperiale, le ricerche archeologiche effettuate negli iblei rivelano la presenza di piccoli agglomerati rurali. Una delle testimonianze più importanti è rappresentata dalla fattoria tardo-ellenistica e repubblicana di c.da Aguglia (Palazzolo Acreide, SR).
Recentemente, una quindicina di tombe a fossa localizzate nel sito archeologico di c.da Cugno Case Vecchie (Noto, SR), scavate nella roccia, risultano assimilabili a tipologie attestate in età ellenistica e repubblicana. La carenza di dati e informazioni relative a questo periodo, tuttavia, non permette sicuramente una corretta ricostruzione delle dinamiche insediative che interessarono questo lembo di territorio.
Il paesaggio archeologico degli Iblei dalla Tarda Antichità (secc. III-V) all’età bizantina (secc. VI-IX) è ricco e assai articolato e, insieme alle fasi preistoriche, ben identificabile e dai connotati peculiari e distintivi. Attraverso le fonti cartografiche è possibile conoscere e ricostruire alcune importanti arterie viarie, quali la Via per maritima loca, che dall’attuale territorio costiero ragusano arrivava a Siracusa per Eloro, o la Via acrense, più interna, che andava da Ragusa ad Akrai e da qui a Siracusa, suddividendo l’altopiano ibleo in due settori, meridionale e settentrionale. Abbandonando, quindi, l’antica idea del declino economico e sociale dei siti alla fine dell’età classica si assiste, al contrario, a una grande vitalità sia dei centri urbani che delle campagne, confermata dalle abbondanti e diffuse testimonianze archeologiche e monumentali.
Il paesaggio funerario è quello, oggi maggiormente percepito dai visitatori dei siti iblei: la natura geomorfologica del territorio, costituita da calcari facilmente modellabili, ha permesso la realizzazione di tanti ipogei (lett. dal greco: «sotto terra») a destinazione sepolcrale, il più delle volte frutto del riuso di tombe di età preistorica, trasformate e caratterizzate da nuove architetture. E così il territorio rurale è costellato da centinaia di tombe: loculi, arcosoli, sarcofagi e tombe “a baldacchino” (lat. tegurium), con soluzioni architettoniche spesso elaborate e raffinate, che non hanno nulla da invidiare alle grandi catacombe dei centri urbani di Siracusa o del Ragusano. Dalle piccole catacombe di Manomozza o di Riuzzo a Priolo Gargallo a quelle dell’attuale territorio fra Canicattini Bagni e Noto, come Cozzo Guardiole, San Giovannello, Santolìo e Stallaìni; dalle catacombe di San Martino a Ferla a quelle dell’Intagliata e dell’Intagliatella nel parco archeologico di Palazzolo Acreide o alle tantissime sepolture, in piccoli nuclei, delle cave iblee o della valle dell’Anapo; o ancora, da quelle di Cava Ispica o della Grotta delle Trabacche, nell’attuale territorio ragusano, di Ispica e Modica. Il territorio rurale, popolato da genti ormai cristianizzate, ha anche i suoi centri di culto, anch’essi scavati nel calcare: punti di riferimento delle comunità e luoghi sacri la cui vita continua per secoli, anche dopo l’abbandono degli abitati di riferimento, per tutto il millennio medievale. Imitando nella roccia, per quanto fosse possibile, elementi architettonici del costruito, si sfruttano le tante grotte del territorio, in una suggestiva dimensione simbolica e spirituale. Dalle tante chiese rupestri di Lentini, come quelle di S. Lucia, di S. Margherita o dei SS. Alfio, Cirino e Filadelfo, alle grotte di S. Nicola a Buccheri e di S. Pietro a Buscemi; da quella di S. Sofia a Ferla alle chiesette di S. Nicolicchio, S. Micidiario e del Crocifisso nell’imponente contesto di Pantalica; dalle chiese del territorio fra Canicattini, Palazzolo e Noto come, ad esempio, Bibbinello, S. Marco, S. Lucia di Mendola e S. Maria, ai piccoli oratori come quello di Pianette o di Petracca, quest’ultimo trasformato in battistero rupestre, o ai tanti piccoli eremi annidati fra gli anfratti rocciosi.
Le evanescenti pitture all’interno di esse confermano la secolare devozione delle genti che si riunivano in preghiera in questi luoghi. Le pareti delle chiese rupestri vengono, così, ricoperte da pannelli pittorici che imitano le grandi icone bizantine e ne continuano il caratteristico stile, poiché spesso giungono a noi le tracce dipinte più tarde dal punto di vista cronologico, a volte frutto di ridipinture o di restauri, databili fino al tardo Medioevo o alla prima età moderna.
Il Pantokràtor, la Madonna con Bambino e i vari santi riflettono, oltre agli stilemi e all’iconografia, sia il grande santorale bizantino che i culti radicati nel territorio da secoli: Lucia, Nicola, Michele e gli Arcangeli, Cosma, Damiano, Elena, Giovanni il Battista e altri santi locali sono, infatti, i soggetti più frequentemente rappresentati.
I segni dei culti e delle religioni rispecchiano una singolare e pacifica coesistenza di fedi: comunità di pagani, di cristiani e di giudei sono unite sia nella vita che nella morte, lasciando tracce del loro passaggio. Iscrizioni vengono graffite sulla roccia o incise sulle lastre tombali, riportando i nomi e i mestieri dei defunti; oppure simboli, come la menorah (il candelabro rituale a sette bracci) dell’ipogeo ebraico di Case Vecchie o della Grotta del Carciofo a Noto, fanno rilevare la presenza di gruppi di Ebrei; laminette metalliche con invocazioni a Cristo e agli Angeli, di protezione del raccolto o di allontanamento degli spiriti maligni, sono fra le più frequenti testimonianze archeologiche del Cristianesimo tardoantico e bizantino o di altri culti eterodossi, sempre vitali e capillarmente inseriti nel territorio. Anche gli insediamenti abitativi e i rispettivi annessi sono molteplici e diffusi: villae, abitati rurali (vici), villaggi, fattorie e impianti produttivi sono sparsi per il territorio, anche se ancora poco studiati. Rispetto alle più famose ville tardo-antiche, spesso associate ai lussuosi mosaici di cui erano provviste, come quella del Tellaro a Noto, o individuabili per i rinvenimenti archeologici, come quella dal territorio di Canicattini dalla quale proviene un famoso tesoro con stoviglie in argento di età bizantina; anche altri modi dell’abitare caratterizzano l’entroterra collinare e delle cave. Basti pensare ai caratteristici ‘ddieri (dall’arabo: «le case»), ovvero abitazioni interamente scavate nelle pareti rocciose, su più livelli, impervie e ricordanti quasi degli alveari, come quelli di Baulì o di Cavagrande del Cassibile; oppure ai tanti villaggi rurali, aperti o fortificati, lungo gli altopiani, le valli dei fiumi e delle cave; o infine ai nuclei abitativi, sempre in roccia, che per agglomerazione daranno vita a importanti centri quali Ispica, Rosolini, Ragusa Ibla, Modica, Scicli. Le abitazioni e le fattorie erano, il più delle volte, dotate di impianti legati alla lavorazione delle olive, dell’uva e del grano, vista la vocazione agricola che ha sempre connotato gli Iblei lungo i millenni. Palmenti rupestri con vasche, frantoi e mulini, sia in grotta che a cielo aperto, sono numerosi e testimoniano le attività laboriose per lo sfruttamento delle risorse naturali. Inoltre, concerie e vasche per la lavorazione e la tintura delle pelli; luoghi per la produzione della cera e del miele, il prodotto degli Iblei più conosciuto e apprezzato nel mondo antico; e, importantissimi per la vita del territorio, acquedotti e canalizzazioni, anch’essi ricavati in roccia, sono ulteriori testimonianze del rapporto fra uomo e ambiente, che va a disegnare il sorprendente paesaggio delle “cave” in un contesto di spettacolare biodiversità, vegetale e animale.